
By Procopio di Cesarea, a cura di Marcello Craveri
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Mi è di gran conforto rievocare il suo volto chiaro e deciso, leggermente aquilino, gli occhi pensosi, la bocca come sigillata in un interiore discorso. Era la faccia più leale e onesta che mai avessi incontrata, spesso sorridente: adesso era soffusa di una desolata malinconia. Scambiammo un battito di ciglia, e mi bastò per esser certo che nessuno di noi aveva tradito, che tutto quel vociare di libertà e di perdono era un trucco, una beffa. Respirai. Seppi più tardi che il mio amico - tale egli divenne in seguito - era stato avvertito di quel che ci aspettava: gli antri di Montefusco.
L'umore di tanti individui di diversa classe ed educazione, riuniti a forza, era spesso tempestoso e si accendeva per futili motivi. Il pubblico, dal '60 in qua, ci ha inchiodato alla condizione di superuomini, guai a contraddirlo dimostrando che la nostra costanza era tessuta di caparbie minuzie. Non è la prima volta che tocco questo tasto e non è da parte mia crudeltà, ma desiderio di giustizia da rendere alla nostra natura di poveri uomini. Temo però di aver calcato un po' troppo la mano su certe nostre debolezze e di aver taciuto, invece, i nostri affanni più nobili.
Le sue aspirazioni umanitarie, le sfogava inculcandomi i principi della carità cristiana verso i poveri braccianti cenciosi e affamati che in annate di carestia scendevano a Pizzo per mendicare. » Ma ci voleva altro, per me. Se nel '21 avevo otto anni, nel '31 ne avevo diciotto e nel '33, a venti, ero già a Napoli, avevo convinto mia madre a passarmi una piccola mesata con cui dovevo perfezionare gli studi, ma non certo potevo vivere da gentiluomo. Fu lì che cominciò la mia amicizia con Benedetto e mi iscrissi ai suoi "Figlioli della Giovane Italia", la nuova setta dei ragazzi della mia età.